giovedì 2 gennaio 2014

Vademecum della Vittima

Gli stati generali dell’autonomia diffusa, convocati sabato 9 novembre 2013 nella problematica sede dell’Arci Bellezza a Milano, aprivano un dibattito collettivo finalizzato alla stesura del controverso breviario tascabile noto anche come “vademecum deontologico del rivoluzionario”, che fissasse dal punto di vista etico l’espressione della libertà comportamentale dell’antagonista, così come espressa da Max Stirner ne L’unico e la sua proprietà (1845), secondo cui l’unica libertà dell’essere umano è “libertà da” e non “libertà di”. 

Questo simpatico “libretto rosso” sarebbe stato uno di tanti tool di cyber-resistenza esistenziale da portare sempre con sé, una serie di note ed appunti per convenire su alcune regole (parola che ahinoi non piace più) da autoinfliggersi: insomma un terreno autonormativo di riferimento, una sorta di servizio d’ordine su se stessi per essere in grado nella pratica, e non solo nella parola, di contrastare - a partire dall'autodisciplina e dall'autocontrollo - sessimo, fascismo e senso della proprietà privata.

I molti che hanno declinato l’invito a partecipare, come i pochi che invece hanno aderito all’assemblea (pur poi affermando più volte durante la giornata di “non essere lì”, e di non poter accettare un dialogo) hanno posto come primo ostacolo il timore di venire a trovarsi vittime di un processo. Eppure tal modalità era stata rifiutata in maniera inequivocabile nelle nostre riflessioni critiche, già circolate pubblicamente a mo' di invito all'incontro.
Un processo in effetti c'è stato, e con nostro stupore ci ha trovate protagoniste, nel ruolo di imputate. A socratica memoria, ci siamo lasciate accusare senza opporre resistenza: quello che si dispiegava ai nostri occhi sotto le vesti di un processo alle nostre intenzioni, al nostro linguaggio, a come si debba o non si debba creare “relazioni” - per tutta la giornata non verrà mai fatta parola dell’aggressione che abbiamo subìto e tutto il ragionamento critico prescinderà da questo dato di fatto, collocandosi o subito prima, nel momento della “provocazione”, o subito dopo, nel momento della reazione - appariva in realtà una fantomatica messa in scena, la raffinata autorappresentazione della civiltà dell’antagonismo così come ci è data allo stato dell’arte. Come Socrate abbiamo perciò rinunciato a difenderci, certe che il vero processato, il vero condannato, non fossimo noi ma l’antagonismo stesso, e a condannarlo senza possibilità d'indulto era esso stesso, giacchè noi in quel luogo non eravamo giudici, bensì testimoni. E’ in questo contesto che un vademecum è stato infine prodotto: non quello che noi avevamo pensato, bensì quello della vittima, che riassumiamo in brevi punti qui sotto così come emerso dagli interventi del 9 novembre al Circolo Arci Bellezza Okkupato di Milano, e che doniamo come augurio al nuovo anno a quanti avranno la voglia e la curiosità di leggerlo.

Vademecum deontologico della Vittima 
Breviario in 10 punti perché una violenza venga riconosciuta come tale

1- la vittima è donna, quindi sii donna
Vittima, parola di cui sin dal tempo dei latini la radice etimologica è oscura, indica originariamente l’offerta nel rito sacrificale o chi è colpito da calamità naturali. Con Dante il termine sposta il suo significato verso chi soggiace ad azioni ingiuste, prepotenze, violenze, mentre nell’uso ottocentesco denota chi subisce, anche senza averne piena coscienza, le conseguenza negative di errori, vizi*, difetti.
In tal senso - e non importa averne coscienza, anzi meglio non averne altrimenti si rischia di diventare antipatiche - nessuno meglio della donna, da tempo immemore oggetto di azioni ingiuste, violenze e prepotenze da parte degli uomini, conseguenza del vizio di forma* primigenio, cioè quello del potere patriarcale che assume la donna ad oggetto-proprietà, può interpretare l’essenza stessa della vittima.

E perché il dispositivo comunicativo grazie al quale la platea possa agevolmente riconoscerti in quanto vittima si oli quanto basta, è fondamentale che tu sia prima di tutto una donna, ben riconoscibile come tale. A questo fine quel che ancora oggi risulta più efficace è l’armamentario tradizionale, dalla scarpetta rossa col tacco al rossetto, dalla gamba in vista al rimmel, dalla folta capigliatura allo smalto (anche quello, preferibilmente rosso, che si sa attrae il maschio, taurino come umano) alla scollatura generosa, tutte insieme o in combinazione a piacere. Tale precauzione porterà con sé un’innumerevole serie di altri vantaggi collaterali: facilitazioni che spazieranno dalle file agli sportelli fino alle dinamiche sul posto di lavoro (dove potrà stemperarsi la discriminazione che punisce la donna sia dal punto di vista della posizione gerarchica che da quella retributiva, anche se in questo campo il benefit maggiore è raggiunto con il classico pompino sotto la scrivania). Meglio condire il tutto con una serie di atteggiamenti e movenze che ribadiscano e concretizzino ciò che già l’apparenza suggerisce: nessuna parsimonia dunque riguardo a battiti di ciglia, sorrisi, svenevolezze, gridolini, e tutto quanto possa suggerire che sei inoffensiva, debole, sessualmente disponibile, bisognosa del maschio alfa non solo per godere ma anche per sopravvivere nella dura giungla in cui gli hominidi agilmente si muovono. Tale attitudine tra l’altro ha anche un effetto piuttosto benefico nella protezione da spedizioni punitive di violenza fisica come quelle in cui incappano spesso le donne che si presentano con un’immagine meno rispondente a quella presupposta dall’uomo, anche se presenta la controindicazione di aumentare la possibilità di attrarre verso sé stalker e stupratori. E’ lecito comunque ricordare che l’armamentario in questione resta segno inoppugnabile dell’espressione della libertà femminile, e che piacere - in primis al maschio alfa - è il metodo più semplice ed infallibile per piacersi (cit. Collettivo Ambrosia).

2- la donna è vittima, quindi sii vittima
Nel caso che, nonostante tu abbia seguito alla lettera tali prescrizioni, dovessi per un caso fortuito cadere ugualmente preda di violenza maschile, allora la prima cosa da fare è smettere i panni della troia e vestire immediatamente quelli della vittima. Non basta infatti che nei tuoi confronti si sia agita prepotenza o violenza, anzi ciò non conta nulla agli occhi della gente. Perché la qualità del gesto che hai subìto venga riconosciuta, bisogna che sia tu stessa a definirti come vittima: adotta immediatamente questa parola nel tuo vocabolario e usala a profusione in qualsiasi occasione, anche ripetutamente. Mostra occhiaie, capelli sfibrati, unghie rotte con lo smalto rosso di cui sopra un po’ smangiato. Quando ti trovi in pubblico, esibisci tremori, sbalzi d’umore, attacchi di panico alternati a sguardo perso nel vuoto. Sappiamo che nella vita di ogni donna la violenza dell’uomo si incontra più e più volte, spesso a partire dalla più tenera età: il classico percorso che per l’uomo indica le tappe della scoperta della socialità – famiglia, scuola, lavoro, sessualità, ecc. – per la donna segna la progressiva scoperta della violenza che contro di lei viene agita e la ricerca dei modi per conviverci, continuando a vivere. Le reazioni che la reiterata violenza maschile suscita nella donna mutano dunque con il passare del tempo: il soverchiante senso dell’ingiustizia che scuote la bambina gettandola nella disperazione, lascia presto spazio ad altri tipi di sentimenti, come noia, disgusto, ironia, mera accettazione, godimento anche, e perché no, rabbia. Donne che hanno già subito violenza sessuale, violenza fisica o psicologica in giovanissima età, faranno dunque molta fatica a mantenersi entro i severi limiti della reazione vittimistica. Ma poco importa: se ci tieni al risultato, lasciati presto alle spalle ogni reazione e sentimento che non sia quello del vittimismo, perché esso è l’unico che, mentre accusa l’uomo di averti violato, ti garantisce contemporaneamente come essere debole, innocuo, sottomesso, ti garantisce come eterna vittima potenziale, non andando dunque a manomettere quel prezioso meccanismo di auto-esclusione e auto-sottomissione che garantisce al patriarcato di riprodursi sempre uguale a se stesso nei secoli dei secoli, e risultando per questo socialmente accettabile.

3- la tua forza è l’emotività
Per essere riconosciuta come vittima, bisogna che il tuo racconto susciti interesse e immediata comprensione. Sappi allora fin da subito che la posizione che la gente ama, nell’approcciarsi alla storia di qualcun altro, è quella di chi compatisce. Tale posizione si connota come la più comoda in assoluto ed è il frutto di secoli e secoli di perfezionamento dell’idea di pubblico e di spettacolo da parte della cultura cattolica. Se infatti chi racconta permette che si inneschi il gioco della compassione con chi ascolta, garantisce all’ascoltatore di evitare qualsiasi rischio di riconoscersi in qualche modo nell’immagine del carnefice. Il fatto che chi racconta si rivolga all’ascoltatore senza rabbia, senza conflitto, come a un giudice superiore ed esterno, e il fatto che l’ascoltatore sia profondamente colpito dal livello emotivo del racconto, sancisce senza possibilità di dubbio che chi racconta e chi ascolta sono collocati in un territorio privilegiato, quello dei buoni e degli innocenti, da cui l’aggressore è invece escluso.
Capiamo che potrebbe risultarti incomprensibile e un po’ nauseante l’idea che l’arduo percorso che porta a veder riconosciuta pubblicamente la violenza di cui si è state oggetto comprenda anche questo momento pornografico: ci si deve spogliare facendosi spiare dal buco della serratura come in un antico peep-show! Ma non perderti d’animo proprio ora, perché si tratta di un passaggio fondamentale, e se non lo attraversi verrai non solo accusata di essere aggressiva, arrogante, superba, ma soprattutto nella mente degli astanti comparirà immediatamente un grafico cartesiano, in cui le ordinate rappresentano l’intensità del tuo coinvolgimento emotivo espresso, e le ascisse quello della gravità dei fatti. Se non esprimi abbastanza emotività, il valore della violenza verrà immediatamente collocato nei gradini più bassi della scala. E se pensi che la qualità di un gesto di violenza non sia determinato dalla quantità di violenza che ti è stata inflitta, se per caso pensi che la frase “infondo non sei mica sulla sedia a rotelle, infondo sei ancora viva”, sia qualcosa di rivoltante, beh! togliti queste idee dalla testa perché non incontreranno il sostegno di nessuno. Dunque bando agli scrupoli: inizia subito con un giro di telefonate alle tue amiche, entra in tutti i dettagli più scabrosi e intimi, alzati la gonna e fai vedere, calpesta ogni tuo senso del sacro, banalizza ogni emozione trasformandola in parole buone per ogni stagione ma soprattutto vendi te stessa! Il mondo è pieno di vampiri che aspettano i saldi per potersi nutrire del tuo dolore a buon mercato.
 
4- la violenza non è questione di scienza
Se sei emotiva non sei pensante, va da sé. Tutto quello che sai, grazie alla tua intelligenza e alla tua pluridecennale esperienza diretta nel campo del patriarcato, non interessa a nessuno. Quindi, gentilmente evita. Se cercherai il confronto sul terreno della riflessione teorica, incontrerai uomini per lo più disposti a credere sulla parola alla violenza di cui racconti, ma essenzialmente incapaci di entrare in dialettica con te. Comprendili: ciò che li spinge a essere così pronti a riconoscere violenza sessista è da un lato una condivisibile ansia di dissociarsi da se stessi (da “quelli che picchiano le donne”); dall'altro, non avendo nella vita mai sperimentato il sapore metallico del soppruso patriarcale, esercitano quel particolare atto di fede medievale, che spinge la gente comune a credere in “Dio”, non potendo avere prova della sua esistenza materiale attraverso un'esperienza fisica, non potendolo conoscere personalmente incontrandolo ad un semaforo.
Poi incontrerai due generi di donne: la sacerdotessa e la domatrice doma. La domatrice doma vive generalmente quieta e soddisfatta: la posizione di sottomissione al maschio le procura sicurezza e piacere, vive le sue limitazioni come privilegi e si sente partecipe per luce riflessa del potere del patriarcato. C’è solo una cosa che manda letteralmente fuori di testa la domatrice doma, e che la fa uscire dal suo stato di grazia: la vista di una donna che non sottostà alle regole che lei si auto-impone. Vedersi davanti la possibilità in carne ed ossa di un’altra via, di un’altra scelta, di una libertà dal patriarcato, fa scricchiolare pericolosamente tutta l’impalcatura fragile su cui basano le certezze della domatrice doma. Per questo essa soggiace all’istinto irrefrenabile di annientare le donne diverse da lei. Se
cercherai di mostrare il tuo rifiuto della violenza maschile non con i modi del vittimismo ma con quelli della provocazione, del conflitto, della rabbia e del ragionamento, la vedrai difendere l’uomo con le unghie e con i denti, perché troppo giovane, perché disagiato, perché provocato, perché non abituato... Ad ogni costo vorrà riportarti nell’alveo della donna madre, che tutto accetta, tutti protegge e tutti cura: è quella, a suo parere, la fetta di potere che ti tocca sull’uomo, e non riesce proprio a capire perché ti ostini a distanziartene.
Dall’altra incontrerai invece la sacerdotessa: lei ha dismesso le vesti della crocerossina e si è affrancata dalla patria potestà, si è ritirata nel tempio da cui attende ai riti e cosparge con la mola salsa (farina tostata mischiata a sale) la vittima sacrificale di turno. Ella, alla quale il grado di sacerdotessa è costato rinunce e visioni di terribili verità, non può accettare facilmente che altre donne possano comportarsi da sue pari. Tratta infatti solo con le vittime, e non accetta che chi subisce il patriarcato da una vita possa essere abbastanza “esperta” da elaborare pensieri e teorie a riguardo. Cercherà per tanto di rigettarti nel ruolo che per te ha apprestato ad ogni costo, adducendo a giustificazione il fatto che se non hai letto tutti i libri che lei ha letto e partecipato a tutte le iniziative che si sono avute, quelle da lei organizzate e quelle da altre sacerdotesse organizzate, in città come in tutto il regno, non puoi parlare con lei, costringendola magari a ripetersi o a condividere con altre la sua sapienza (cit. Adriana Nannicini, sedicente “amica di Colletivo Ambrosia e Z.A.M., ma non nostra”).

5- l’azione è morta sull’altare della relazione 
Ciò che invece tutti desiderano, aggressori, interlocutori, donne e uomini, è che tu ti relazioni. All’inizio ti sarà difficile comprendere l’esatto significato di questa parola, specie se quello che stai facendo è cercare di condividere in un momento pubblico alcune riflessioni, intendendo proprio quello il momento per costruire una relazione possibile, cercando interlocutori, e ricevendo una risposta comune al tuo appello: la relazione bisogna costruirla “prima”. Come nel famoso paradosso di Zenone Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga che sia partita in una gara di corsa poco prima del veloce eroe greco, perche la linea che li separa è divisibile in infiniti punti, così per ogni presente ci sarà sempre un “prima” in cui collocare la mancata costruzione di un incontro e di un dialogo. Il risultato è, in entrambi i casi, l’assurdo di un’impossibilità che non trova nessuna conferma nel mondo reale ma solo in quello della mera speculazione. Si può arrivare al paradosso di proporre un’assemblea libera e aperta al contributo di tutti ed essere rifiutati per la “piattaforma troppo fumosa” (cit. Leoncavallo S.P.A.); passare ore in telefoniche preparatorie dell’incontro ufficiale e ore successive all’incontro stesso dovendo motivare le proprie posizioni politiche (ma non era un assunto dato per acquisito dai movimenti quello che ci si può incontrare nella diversità?) e sentirsi rispondere che le relazioni per essere costruite hanno bisogno di tempo, che per scrivere anche solo l’invito ad un incontro bisognava sedersi in assemblea con gli interlocutori invitati e “scriverlo insieme, per poi magari scoprire che scriverlo in tante persone è impossibile” (cit. Macao – Centro per le Arti e la Ricerca); trascorrere un intero pomeriggio in assemblea con chi dice di sentirsi politicamente responsabile per l’atto di violenza sessista di chi militava tra le proprie file, ma che per l'intero tempo dell’incontro ribadisce che pur essendo lì di fronte a te (ad accusarti come un giudice inquisitore) in realtà non c’è, e che, pur essendo da ore in dialettica con te, il dialogo con te è impossibile (cit. Z.A.M.); fino all’assurdo di, venuta sera, dopo che per ore si subisce la vivisezione di una nutrita platea di donne e uomini che per lo meno riconoscono di essere lì per un fatto di violenza sessista accaduta contro di te, sentire qualcuno che in nome della propria libertà d'espressione, mette addirittura in dubbio che il fatto sia mai davvero accaduto (cit. anonima interlocutrice). Che questo dunque ti serva da monito: ricorda, non agire, non fare nulla, se non hai prima costruito una rete molto stretta di relazioni. Sì, lo so cosa stai pensando, la relazione così intesa ti ricorda quella di un clan familiare o di qualche struttura simil- mafiosa. Ecco, è esattamente di questo che avrai bisogno se non vuoi essere metaforicamente lapidata in pubblica piazza. Ti stai chiedendo come costruire questo genere di “relazione”? Fai riferimento ai punti 1, 2, e 3 di questo decalogo e dovrebbe riuscirti senza grosse difficoltà.

6- rispetta le differenze tra privato, pubblico e mediatico
Esiste una netta differenza tra privato, pubblico e mediatico se decidi di rendere pubblico ciò che ti è successo (cit. Macao – Centro per le Arti e la Ricerca, a proposito della controversa scelta di non dichiarare che a dar vita alla 10 giorni contro    la    violenza    sulle    donne    denominata    “Occupiamo    il    conflitto”    da    loro organizzata, fosse stato uno stupro avvenuto tra le mura dello stesso Macao). Mantieniti perciò in bilico tra queste categorie. Tieni presente che: non tutto ciò che è privato può essere reso pubblico; non tutto ciò che non vorresti rendere pubblico può essere tenuto privato; necessariamente tutto ciò che diventa mediatico ti si ritorcerà contro, per assunta volontà di spettacolarizzazione di guy-debordiana memoria. Riportiamo a tal proposito la nostra esperienza con Monica Lanfranco, giornalista femminista alla quale inviamo tutta la documentazione prodotta da noi e da Z.A.M. sull'aggressione, e che da questo materiale, scrive un articolo sul suo blog del Fatto Quotidiano. Una colpa questa, che non le verrà perdonata: riceverà infatti, ad avvenuta pubblicazione del post sul sito del giornale, la lettera intimidatoria del Collettivo Z.A.M., che la invita cortesemente a modificare quel che ha scritto (neanche fossimo ai tempi delle veline fasciste o degli editti bulgari berlusconiani!).
Ci teniamo anche, a tua tutela, specificare il reale significato del rinomato slogan femminista “il personale è politico”. Se hai come noi per un attimo creduto che il senso di questa affermazione fosse partire dalla pubblica denuncia di fatti “privati”, personali come una violenza subita, per elaborare collettivamente riflessioni e pratiche politiche pubbliche e condivise, sappi che ti sei sbagliata! “Personale è politico” viene oggi inteso da un lato, con il “con voi non parlo perché non vi conosco, parlo perché qui ci sono x, y e z, che sono amiche mie” (cit. Adriana Nannicini); dall’altro lato come “o mi racconti da dove vieni, chi frequenti, quali sono le tue abitudini sessuali, con chi scopi, ecc. (vedi il punto 3 di questo decalogo) oppure la tua storia non mi interessa”.

7- non prevaricare 
Chi non segue alla lettera i punti da 1 a 6 di questo decalogo, è una prevaricatrice: agisce con violenza e si merita la violenza di cui è stata oggetto da parte del maschio portatore di Giustizia nel mondo. Altre tipologie di donna rispetto a quella descritta dai comportamenti indicati nei punti da 1 a 6, non sono in nessun modo legittimate ad esistere, nè mai lo saranno.

8- non provocare
Questo punto non necessita lunghe spiegazioni: è già scritto nel codice genetico di ogni donna fin dalla sua nascita, trasmesso con il latte della madre durante i primi giorni di vita, noto a tutte per metempsicosi dalle vite precedenti. Ogni comportamento che non risponde esattamente a quanto descritto nei punti da 1 a 6 di questo decalogo - e a volte anche gli stessi comportamenti descritti nei punti da 1 a 6, come ad esempio indossare una minigonna o del rossetto rosso o delle scarpette rosse col tacco, ma anche di altri colori - rientra fuor da ogni dubbio nell’ambito della pura provocazione alla sensibilità spiccata del maschio, e pertanto giustifica consequenzialmente ogni violenza di cui si possa essere oggetto a causa di tali sconsiderati comportamenti.
Ci teniamo a segnalare, perché tu possa farne tesoro, che tra le provocazioni più gravi che una donna possa fare nel mondo dell’antagonismo italiano rientra il “furto” di bandiera. Provocazione che del resto assume la stessa gravità quando agita ai danni di esercito, gruppi fascisti e istituzioni. A controprova della sua gravità, verrai insultata con: “le donne devono stare sotto, aveva ragione mio padre!”, “le femministe sono morte negl'anni '80!”, “dovresti bruciare viva!” (cit. Francesco “Riot” Vivone, Davide Memeo, Collettivo Z.A.M., RETE STUDENTI Milano, Collettivo Ambrosia).

9- non denunciare
Ed eccoci infine al punto più importante del decalogo. 

Di qualunque violenza maschile tu sia stata vittima, ricorda di non denunciare. Nell’ambito dell’antagonismo italiano precisiamo che se la denuncia viene rilasciata a pubblica autorità, questo gesto ti trasforma immediatamente e senza possibilità di ritorno in un paria dell’attivismo nonchè delatore o meglio detto “infame” (cit. Z.A.M.). La tua identità verrà per sempre cancellata, anche da amici, collaboratori e “compagni” nonostante gli anni di attivismo comune (vedi Radio Onda d’Urto e l'epurazione della redazione della trasmissione “Router”). Segnaliamo che per molti gruppi dell’attivismo italiano questo principio non vale per quanto riguarda la proprietà privata: il furto può essere tranquillamente denunciato all’autorità quando il ladro è un emarginato sociale, un reietto, un tossicodipendente, un poveraccio, ecc. Qui si distingue solo Z.A.M, che nel tentativo di suggerire il giusto comportamento da adottare dopo l’episodio di aggressione sessista in questione, ci racconta la parabola del “buon compagno” che ruba il ricavato del centro sociale, fatto a cui il gruppo reagisce prima, cercando di contattarlo personalmente per riavere i soldi, e poi, facendo un momento di autocoscienza per capire quali errori avessero permesso tale avvenimento (cit. Nives, attivista del Collettivo Z.A.M.). Ti consigliamo dunque, nel caso tu dovessi essere vittima di violenza da parte di un uomo, di fondare un gruppo di autocoscienza e riflettere su quali possano essere stati i comportamenti causa dell'accaduto. La provocazione potrebbe essere una prima risposta.

10- il vuoto o “Lo Smalto sul Nulla” (cit. Gottfried Benn)
Se sei arrivata a leggere fin qui, e hai deciso di non seguire nessuna delle regole generosamente indicate in questo “Vademecum della Vittima” prodotto dagli interventi raccolti durante gli stati generali dell’autonomia diffusa il 9 novembre 2013 all’Arci Bellezza Occupato, allora attenta: stai per squarciare la coltre di ipocrisia e silenzio che tutto copre e separa. Sii pronta a trovare il vuoto, aldilà.



Buon 2014 
Lo scherzo della bandiera

2 commenti:

  1. Quando é stato occupato il bellezza?

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  2. ma prima di scrivere rileggete? oltre i paroli e le citazioni improprie a socrate, rileggete quello che scrivete?

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