mercoledì 25 marzo 2015

Federico Barakat, la sua morte e la sentenza ingiusta della Cassazione

Antonella Penati, la mamma del piccolo Federico, ricorrerà alla Corte Europea dei diritti dell’uomo perché in Italia non ha ottenuto giustizia per la morte del figlio e nemmeno la verità. Lo ha detto durante la conferenza stampa organizzata insieme al suo legale, Federico Sinicato e che si è svolta a Palazzo Marino,  il 23 marzo scorso.  Sono intervenute anche la giornalista Luisa Betti e Maria Serenella Pignotti, pediatra e medico legale.
Nei giorni scorsi sono state rese pubbliche le motivazioni della sentenza che ha assolto tre imputati per la morte di Federico Barakat: Elisabetta Termini, dirigente del servizio sociale, Nadia Chiappa assistente sociale e Stefano Panzeri, un educatore. Federico venne ucciso dal padre quando aveva a 8 anni, il 25 febbraio del 2009, durante una visita protetta, nella sede dei servizi sociali di San Donato Milanese. In quel momento era stato lasciato solo nella stanza col padre che lo colpì con diverse coltellate e poi gli sparò. Fu una morte annunciata che si compì dopo un lungo calvario lastricato dalla distorsione delle risposte istituzionali. La mamma Antonella si era rivolta allo Stato per chiedere protezione per sé e il figlio, perché subiva violenze e minacce dall’ex marito che faceva anche uso di droghe; ma invece di ricevere aiuto si vide sottratta la potestà genitoriale che venne esercitata dal servizio sociale affinché vigilasse “nel tentativo di garantire un recupero ed un sereno svolgimento del rapporto tra genitore e figlio"
Nel 2007 il dottor Parrini, CTP di Antonella Penati, aveva informato il servizio sociale della pericolosità di Jok Barakat, chiedendo una restrizione delle visite. Ma la sua  perizia venne ignorata e addirittura il servizio sociale, in capo a due anni, nonostante le violenze non fossero cessate concesse un ampliamento dei tempi di visita tra padre e figlio,   programmando persino un viaggio all’Aquarium di Genova. Le Istituzioni rimossero completamente la violenza e non fecero alcuna valutazione sulla pericolosità del padre di Federico. In una distorta logica degna di un processo kafkiano, Antonella si sentì accusare dai servizi sociali di essere una madre ansiosa, una iperprotettiva che ostacolava la relazione tra padre e figlio: la mamma isterica fu così minacciata di perdere la custodia del figlio se avesse osteggiato le visite protette. Anche la paura di Federico fu ignorata. Tre giorni prima di morire, il bambino sognò che il padre lo uccideva e che degli gnomi malvagi lo portavano su una nuvola: un sogno che rivela l'emergere dall'inconscio dell’angoscia profonda che lo tormentava da tempo. Ma l'origine oggettiva di queste ansie non fu riconosciuta: per negarla venne invocata la Pas, la inesistente sindrome di alienazione parentale (mai inserita del DSM) che parte dall'assunto, come fosse un dogma, che un bambino che teme il padre debba essere manipolato da una madre malevola e iperprotettiva, che mette l'altro genitore in cattiva luce. Lo scorso novembre il Tribunale civile di Milano ha con una sentenza dichiarato che la Pas non esiste - ma purtroppo quella  sindrome inesistente è diventata una sorta di ideologia che entra ancora nei tribunali  con altre "etichette". Quanto peso ebbe la teoria della Pas in questa vicenda?
Antonella Penati, che nel frattempo ha fondato l'associazione Federico nel cuore per ottenere maggiori tutele dei minori, ha chiesto che venga istituita una Commissione d’inchiesta bicamerale per valutare il comportamento delle istituzioni nei casi di violenza e maltrattamento familiare e anche come vengano applicate le leggi di contrasto alla violenza contro donne e minori, le convenzioni internazionali e le procedure di affido coatto. In Senato giace da tempo un  disegno di legge per istituire una commissione, proposto dalla senatrice Valeria Fedeli, e sottoscritto trasversalmente dalle forze politiche che ancora non è stato discusso e che potrebbe essere un buon strumento per valutare se ci sono smagliature nel sistema di intervento a sostegno delle vittime di violenza perché non ci siano più donne ri-vitimizzate e inascoltate come è accaduto ad Antonella Penati.

A sei anni dalla morte di Federico la Cassazione sentenzia che i servizi sociali non furono responsabili perché nel provvedimento del tribunale dei minori «non derivava dalla necessità di tutelare l’incolumità fisica del bambino ma dall’esigenza di garantire un adeguato sviluppo del minore in presenza di genitori inadeguati, e che entro tale confini doveva essere interpretato l’ambito di controllo demandato dall’ente pubblico», e ancora  che «le finalità protettive eranounicamente – al sostegno educativo e psicologico del bambino, a fronte della esasperata conflittualità della coppia genitoriale».  Come se fosse possibile scindere un adeguato sviluppo del minore dalla tutela della sua vita. Nelle motivazioni di quella sentenza pesa come un macigno l’assenza della parola violenza. Il riferimento continuo e fuorviante alla  “conflittualità” invece che alla violenza,  è un’offesa alle vittime che non hanno ricevuto nemmeno la restituzione di una reale ricostruzione dei fatti. L'atto di rimozione della violenza, delle denunce e della perizia sulla pericolosità del padre di Federico sgombra comodamente il campo da qualunque ipotesi di negligenza del servizio sociale che perseverò ostinatamente nell’assurdo progetto di far conoscere a Federico “la parte buona del padre".  Ma quella parte buona non c’era più e chissà da quanto  tempo.
@nadiesdaa

mercoledì 18 marzo 2015

I veri Centri antiviolenza sono soltanto quelli delle donne per le donne

Ho fondato insieme ad altre, nel 1986, il Gruppo Promotore che avrebbe portato al primo centralino in Italia per le donne maltrattate e successivamente al progetto compiuto: La casa delle donne maltrattate [chi parla è Marisa Guarneri, ndr]. Eravamo nell’Udi di Milano. Quasi contemporaneamente il Centro Documentazione Donne di Bologna promuoveva il Gruppo di Ricerca contro la violenza alle donne che avrebbe portato alla prima Casa di Ospitalità ed all’associazione Casa delle donne per non subire violenzaProgetti nati dal desiderio di donne, gestiti ed aperti solo alle donne, fondati sul volontariato e sulla metodologia dell’accoglienza elaborata a Milano e poi diffusa in tutta Italia, nei centri delle donne che via via sorgevano come funghi.
Oggi si mette in discussione, nelle proposte del governo e nelle Regioni, questa realtà cresciuta negli anni e che oggi si chiama D.i.Re Donne in rete contro la violenza, rete che raccoglie Centri antiviolenza italiani. Gli obiettivi sono chiari: dare sempre più spazio alle iniziative istituzionali come Pronto soccorsi, consultori, sportelli comunali e provinciali, ambiti pubblici che si occupano di Pari Opportunità. La vera storia ce la raccontano i consultori milanesi che conosciamo bene e che sono partiti dalle lotte delle donne e che poi sono diventati Consultori per le  famiglie.
La cartina di tornasole di questa operazione politica sono i finanziamenti pubblici, che ancora dobbiamo vedere e che vengono passati attraverso le Regioni. In Lombardia, apripista e laboratorio di politiche regressive per le donne, esiste una legge regionale che le donne dei Centri antiviolenza hanno contribuito ad ottenere, ma che non ci piace moltissimo, proprio perché ambigua nella definizione di Centro antiviolenza.
Le lobby di potere qui, hanno pesato più dei bisogni delle donne. Insomma nella gestione di questa legge, la giunta Maroni sta facendo pesare volontà di controllo nell’accoglimento delle donne in difficoltà ed il tentativo di condizionare i Centri antiviolenza della Lombardia sotto la stretta delle difficoltà economiche dei Centri stessi. 
Abbiamo protestato il 12 marzo 2015 in un sit-in davanti al principesco nuovo Palazzo della Regione e continueremo a protestare. Ma quel che più conta è vigilare perché i finanziamenti dedicati ai Centri antiviolenza non spariscano o diventino solo patinate campagne informative, o sovvenzioni per Enti formativi che dovrebbero formare le operatrici dei Centri antiviolenza. Come dire “insegniamo ai gatti ad arrampicarsi”. Questa è una questione nazionale di enorme importanza, su cui tutte le democratiche e i democratici dovrebbero impegnarsi. E’ in gioco la libertà delle donne e la vita delle donne che subiscono violenza.
di Marisa Guarneri - presidente onoraria della Casa delle donne maltrattate di Milano