giovedì 6 novembre 2014

Il mio diritto di camminare da sola nel parco

Quasi tutti i giorni vado a passeggiare nel parco vicino a casa con il mio cane. 
Foto: M. Barzi
La sua presenza decide il percorso da fare. Esistono nei parchi urbani aree dove i cani possono correre, zone risparmiate dall’architettura del paesaggio, dove la vegetazione cresce spontanea e abbonda la biodiversità. Il mio cane adora queste aree piene di tracce da annusare.

Non ho mai temuto di essere aggredita durante queste passeggiate e non certo perché io mi senta rassicurata dalla sua presenza. Non ho alcun timore a lasciare i percorsi principali del parco, ad allontanarmi dalle zone che normalmente vengono frequentate dagli anziani del quartiere, o dai bambini e dai loro genitori.
Non programmo il percorso in relazione a quante altre persone presumibilmente incontrerò: gruppi di ragazzi che prendono il sole o si radunano sotto qualche grande albero, adulti che leggono un libro seduti su di una panchina, soggetti di tutte le età che fanno esercizio fisico, signore con il cane che passeggiano come me. So che nessuna di queste presenze costituisce una minaccia, immagino anche che esse siano l’unica mezzo per evitare che si concretizzi.
Eppure il tipo di percorso che il mio cane mi spinge a fare prevede di procedere lungo tratti nei quali difficilmente s’incontra anima viva, luoghi oggettivamente ideali per un agguato. Ma per diventare pericoloso non basta che un luogo sia poco frequentato, bisogna anche che ci sia qualcuno che decida di usarlo come terreno di caccia - e che individui una possibile preda, qualcuno che sia intenzionato ad aggredire, avendo studiato la possibilità di agire indisturbato. Naturalmente non posso escludere  a priori che il mio abituale percorso possa diventare il terreno di caccia di un predatore e tuttavia non credo alla possibilità che lo diventi.
Perché  continuo a passeggiare in quel parco preferendo le sue zone meno frequentate? Perché non prendo in seria considerazione il rischio di fare la stessa esperienza di quella donna milanese, aggredita in pieno giorno mentre correva in un parco qualche giorno fa? Non sarebbe per me più saggio ignorare le preferenze del cane per il verde pubblico meno gestito e frequentato ed individuare per la camminata quotidiana un luogo un più sicuro, un viale del parco o  una zona della città dove i marciapiedi sono spesso pieni di persone? Perché non considerare quelle zone marginali del parco – di fatto elementi residuali di naturalità nell’ambiente urbano – come semplici infrastrutture verdi ed evitarle come se fossero fatte di cemento e asfalto?  Per tutte queste domande c’è una sola semplice risposta: perché non voglio rinunciare ad una passeggiata solitaria per paura di essere aggredita.

Non ho nessuna ragione di pensare che il quartiere dove abito, il suo parco ed  i suoi recessi più nascosti, siano luoghi pericolosi. Non ho paura di camminare su strade dove ci sono negozi, bar, uffici, abitazioni e persone che da quei luoghi vanno e vengono e che usano i loro occhi per osservare ciò che succede nello spazio che attraversano. E se non ho paura di cosa potrebbe succedere nel parco che frequento abitualmente è perché – notava giustamente Jane Jacobs nel suo celeberrimo libro "Vita e morte delle grandi città" – i parchi di quartiere subiscono essi stessi l’influsso diretto e decisivo dell’ambiente che li circonda.

Esperienza e osservazione
Dopo l'aggressione alla donna milanese che correva in un parco mi è capitato di leggere una interpretazione dei fatti che più o meno suona così: è la mancanza degli occhi sulla strada, gli sguardi delle persone che, secondo Jane Jacobs, osservano ciò che succede e ci consentono di non avere paura a camminare per strada, ciò che ha fatto diventare quel parco un luogo per predatori. Ma quegli occhi sono di chi lavora, abita e si sposta sulla strada. Una simile densità di occhi e di capacità di osservazione non ci sarà mai in un parco, luogo di transito e di temporanea permanenza che, per questo motivo, non può essere considerato insicuro.
Affermare che gli aggressori di quella donna abbiano approfittato della presenza di un’area a parco equivale a sostenere che la responsabilità dell’agguato non è di chi lo ha perpetrato ma di chi ha progettato quel luogo, e delle regole che consentono alla città di dotarsi di luoghi simili.
Che mondo meraviglioso sarebbe quello in cui basta cambiare la forma dei luoghi per cambiare, in un colpo solo,  anche la plurimillenaria cultura di una parte dei suoi abitanti. Quanto avanzerebbe l’umanità se, inducendo semplicemente le donne a correre o passeggiare lungo una strada molto frequentata, si riuscisse ad eliminare la propensione di qualche uomo a considerarle prede.
La realtà è che le donne sono molestate anche mentre camminano nel centro affollato di una grande metropoli, esperienza ripresa in un video girato nelle strade di Manhattan e proposto da numerosi quotidiani come strumento di riflessione sulla pervasività del sessismo .
Sarebbe stato molto più sensato, e anche onesto, cercare di capire perchè si viene aggredite correndo in un parco limitandosi a raccontare l’esperienza delle donne, la sua fondamentale differenza rispetto a quella degli uomini. Un’esperienza che aveva consentito a Jane Jacobs di capire che l’ambiente urbano è fatto di cose assolutamente concrete, per descivere le quali non c’è minimamente bisogno di prendere il volo verso chimere metafisiche.
Michela Barzi, Millennio Urbano

Riferimenti
Postilla a, Noi: libere di correre senza paura, Eddyburg, 4 novembre 2014.

Qui il video, Passeggia per strada a New York Molestata 108 volte in 10 ore, Corriere della Sera, 29 ottobre 2014.
Questo articolo è stato pubblicato, in una versione in parte diversa, anche in Millennio Urbano, 5 novembre 2014

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